sabato 3 novembre 2012

Amnesty International: gli uomini prosciolti da accuse di stupro sono solo violentatori impuniti

Qualche giorno fa, la nota ONG Amnesty International ha lanciato una raccolta fondi a favore delle donne. Donne che lottano per i loro diritti, che vengono imprigionate, condannate, torturate, fatte tacere «perché donne»: tra loro, vengono citate l'avvocatessa iraniana Nasrin Sotoudeh e altre tre dissidenti, una siriana, una egiziana e l'altra saudita. La campagna Io sono la voce ha avuto moltissime adesioni e la cifra accumulata al momento sfiora i 25mila euro (l'altro ieri era a 13mila). Testimonial di eccezione, come si apprende da qui, è Alessandro Gassman, del quale possono essere reperiti alcuni interventi a favore del genere femminile sul sito di Antifeminist
Nella mia terza età vorrei diventare semplicemente un uomo oggetto e occuparmi dell’intrattenimento di meravigliose creature. Sugli uomini condivido il pensiero di mio padre. Se il mondo fosse governato dalle donne oggi ci troveremmo in una situazione migliore. Le ritengo superiori ai maschi in tutto. Tranne in una cosa: noi siamo più bravi a raccontare fiabe, ci sappiamo fare con il lato ludico in generale

Sono più sagge, più determinate, più coraggiose, anche più lucide di noi uomini. Papà lo ripeteva sempre e aveva ragione: sono meglio in tutto, tranne che in una cosa. Loro non sanno scrivere e raccontare le favole. Lasciamo a noi uomini il ruolo dei pagliacci e consegniamo alle donne il compito di governare, di guidare. Sarebbe davvero straordinario. A loro il timone, a noi l’intrattenimento
Amnesty da sempre è in prima linea per quanto riguarda la difesa dei diritti delle donne, a volte a ragione ma sovente alquanto a sproposito, tanto da far sospettare che il suo interesse non sia tanto quello di difendere generici e nobili principi di uguaglianza e giustizia sociale quanto salvaguardare i "privilegi di qualcuno". Partiamo ad esempio da una questione che riguarda da vicino la tutela delle donne, ossia il fenomeno della violenza sessuale. Si tratta certamente di una piaga del nostro tempo, un meschino atto di rivalsa nei confronti di chi si trova in condizioni di inferiorità fisica e non può difendersi; sul blog delle Pari Opportunità si parla spesso di questo problema, anche se naturalmente si insiste soprattutto su aspetti che in genere vengono trascurati dalla stampa mainstream. Relativamente a quanto andremo a esporre, sarebbe importante che il lettore provasse un attimo a liberarsi da pregiudizi e stereotipi come quello di immaginarsi lo stupro necessariamente come un atto sanguinario di sottomissione, violenza fisica e disintegrazione psicologica: questa in effetti è la schematizzazione mentale tipicamente associata a tale concetto e derivante dal fatto che, in origine, esso era inteso esattamente in quella maniera. Con il tempo tuttavia, il termine ha abbracciato per analogia una varietà immensa di significati e connotazioni diverse tanto da essere, come cercheremo di argomentare più avanti, del tutto snaturato. Molte organizzazioni, tra cui quelle giuridiche, al giorno d'oggi usano la parola "stupro" per designare determinate condotte che con l'immagine culturale da essa trasportata (evocativa di esperienze drammatiche e fomentatrice di rabbia e sdegno nel cuore dei "non addetti ai lavori") non hanno, oggettivamente, niente a che fare.

Amnesty lamenta il basso tasso di condanne per violenza sessuale che vengono comminate in Svezia, come del resto in altri Stati: su un certo numero di uomini rinviati a giudizio per stupro, solo pochi vengono condannati. La sedicente organizzazione per la difesa dei diritti umani attribuisce questo fatto a «norme di genere profondamente radicate nella cultura patriarcale del paese», sostenendo che in definitiva i violentatori svedesi «godono dell'impunità». Questi sono ragionamenti che vi avevamo già documentato, e pongono il loro fondamento nell'assunto secondo cui
un maschio accusato da una donna di violenza è sempre colpevole, e se viene assolto in tribunale è solo perché non ci sono prove per inchiodarlo
è molto interessante notare che in questa maniera Amnesty si professa, de facto, sostenitrice del principio della presunzione di colpevolezza, demonizzando l'istituto del processo penale che sarebbe, sulla base di questa interpretazione, totalmente inutile e anzi dannoso perché fornirebbe garanzie a persone che sono colpevoli a priori; sarebbe in sostanza una sorta di adesione al metodo Forno basata sulla concentrazione del potere giudiziario nelle mani delle Procure, delle organizzazioni pedocriminali che li controllano e dei centri antiviolenza che spingono, o addirittura obbligano, le donne a denunciare a prescindere dall'esistenza di reali abusi. Implicitamente si richiede in questa maniera l'istituzione della condanna senza appello per gli accusati di stupro, dell'arresto preventivo come punizione, della marchiatura a fuoco sulla base di fatti non dimostrabili in sede legale ma valevoli nell'ottica secondo cui "la donna che accusa ha sempre ragione". Del resto, come si apprende frequentando questi ambienti, un procedimento a difesa di un indagato per violenza sessuale finalizzato a verificare la consistenza della versione fornita dall'accusatrice (versione che nella stragrande maggioranza dei casi costituisce l'unica prova del presunto stupro ma che, come abbiamo più volte puntualizzato, è sufficiente a produrre una sentenza di colpevolezza qualora l'imputato non riesca a dimostrarne l'infondatezza) sarebbe da interpretarsi come un "processo alla vittima" o come un "secondo stupro", un osare mettere in dubbio la sua parola, un tentativo di far emergere eventuali contraddizioni e menzogne che invece dovrebbero rimanere segrete. Il fatto stesso di garantire a queste persone la possibilità di difendersi, di portare prove a loro credito e di poter essere giudicate in un contesto non inquinato dai pregiudizi che inevitabilmente sorgono quando si ascolta una sola campana, sarebbe sintomo di una mentalità patriarcale che "condanna le vittime". Insomma, secondo Amnesty gli uomini prosciolti da accuse di stupro alla fine non sono altro che violentatori rimasti impuniti.

La realtà tuttavia è che il proscioglimento da un'accusa di violenza sessuale richiede molto spesso che l'indagato riesca a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio la propria innocenza: se si escludono le condanne derivanti da prove oggettive e dimostrabili, quali referti medici attestanti lesioni o testimonianze di terzi, tutte le sentenze di colpevolezza derivano dal fatto che l'imputato ha fallito nel convincere la corte della propria estraneità alle accuse. Un esempio è la vicenda di Brian Banks, la cui condanna è stata ribaltata non appena l'unico elemento probatorio che lo inchiodava, cioè la parola della sua accusatrice, è stato sconfessato da una "ritrattazione" catturata da una videocamera nascosta. Questo dimostra, al di là di tutte le mistificazioni provenienti da associazioni quali Amnesty o WAR, che chi viene scagionato da un'imputazione per stupro è sicuramente innocente (almeno in relazione allo specifico fatto contestato), mentre tra chi viene condannato esiste un sommerso, difficilmente quantificabile, di innocenti che scontano ingiustamente una pena detentiva. Questo ovviamente è anche quello che avviene in Svezia, paese all'avanguardia per quanto concerne la persecuzione del sesso maschile.

Come si apprende da varie fonti, in Svezia esistono svariati provvedimenti che i procuratori possono adottare contro i sospettati di violenza sessuale. Innanzitutto, chiunque ricada in questa sfortunata categoria può essere sottoposto a detenzione, in isolamento 24 ore su 24 e in regime di totale incommunicado, senza la necessità che vengano depositate accuse formali, per un periodo di tempo virtualmente illimitato. Questo è quello che rischia Assange, per il quale è stato spiccato un mandato di arresto a seguito di alcune accuse che due femministe svedesi gli hanno rivolto: nello specifico, il capo di imputazione (attualmente non ancora formalizzato) sarebbe quello di "sesso a sorpresa", una particolare forma di "violenza sessuale" che si concretizza quando il rapporto, inizialmente consensuale, si tramuta in un possibile abuso ad esempio perché la donna si addormenta durante il coito oppure il preservativo si rompe e il partner non si accorge di questo fatto. In entrambi i casi (che poi sono le accuse specifiche che gravano su Assange, anche se non si è ancora ben capito se questo preservativo si sia rotto accidentalmente o non sia stato addirittura manomesso prima della penetrazione, cosa che in teoria potrebbe anche far scattare l'ipotesi di "stupro aggravato") si configura secondo la giustizia del paese una condotta criminosa in quanto l'uomo fallisce nel recepire una mutata condizione che potrebbe far supporre un mancato consenso da parte della compagna. Ricordiamo che per queste imputazioni Assange è stato oggetto di un mandato di arresto internazionale, incarcerato in Gran Bretagna e poi costretto, dopo la concessione della libertà vigilata, a una sorta di confino politico all'interno dell'ambasciata dell'Ecuador in cui si è rifugiato e si trova tuttora, impossibilitato ad uscirne in quanto riconosciuto idoneo all'estradizione in Svezia. Al momento l'esecuzione del provvedimento non è possibile solo perché nessuna forza nazionale può "assaltare" un'ambasciata estera, ma naturalmente se l'informatico australiano dovesse mai mettere piede fuori dall'edificio diplomatico sarebbe immediatamente arrestato e tradotto nel paese scandinavo in cui rischia una pesante condanna. Il timore principale di Assange è tuttavia quello di venire successivamente estradato negli Stati Uniti, dove è accusato di spionaggio insieme a Bradley Manning (da diverso tempo detenuto in isolamento) e rischia la pena di morte. In questo contesto emerge brillantemente Amnesty, che propone una soluzione a questo impasse: secondo l'associazione, la Svezia si dovrebbe impegnare a non trasferire l'uomo negli USA una volta scontata la condanna per "stupro". In questa maniera, si garantirebbe il diritto di Assange a non essere ammazzato per aver rivelato le magagne americane e nel contempo si riconoscerebbe "giustizia" alle femministe che lo hanno accusato
È fondamentale che gli stati dimostrino di fare sul serio quando hanno a che fare con denunce di violenza sessuale, rispettando sia i diritti delle donne che chiedono tutela sia quelli delle persone accusate
conclude il comunicato. Anna Ardin, una delle "vittime" di Assange (la bella addormentata, per la precisione), è salita agli onori della cronaca in quanto autrice di un manuale intitolato Guida alla vendetta contro il partner, pubblicato sul web prima di essere rimosso in concomitanza del deposito della denuncia (alcuni siti tuttavia sono riusciti a salvarne una copia): essa è scaturita non appena le due donne hanno saputo l'una dall'altra di aver avuto rapporti con il fondatore di Wikileaks. La Ardin, femminista radicale da quando era all'università, è stata ragguagliata sulla possibilità di sporgere la querela da una sua amica poliziotta (secondo alcuni anche amante), la stessa che poi ha prodotto il verbale trasmesso alla procuratrice di Stoccolma. «È ora di sgonfiare quel pallone gonfiato ed esageratamente osannato di Julian Assange» aveva poi dichiarato l'agente sulla sua pagina Facebook. Data la natura delle imputazioni, è evidente che il castello inquisitorio non può che fondarsi esclusivamente sulla parola delle parti lese: ma come per l'appunto dicevamo prima, questo non è importante perché alla fine l'onere della prova spetta all'indagato. Le due donne sono assistite da Claes Borgstrom, una specie di "avvocato dei sessi" che sostiene una campagna finalizzata a estendere ulteriormente la fattispecie legale dello stupro e ad assicurare di conseguenza più "stupratori" alla giustizia; evidentemente riconoscere come reato il "sesso a sorpresa" o il "sesso supplicato" (come si apprende da Femminismo a Sud, quel crimine che compie l'uomo quando riesce ad ottenere sesso dalla partner solo dopo averla pregata insistentemente, compiendo così una sorta di sottile costrizione psicologica) non è più sufficiente a contrastare l'ondata di violenza sulle donne che attanaglia il paese e che la «cultura patriarcale» non è certo in grado di arginare.

La femminista svedese Helene Bergman, la stessa che negli anni '60 aveva coordinato le contestazioni delle donne che chiedevano un maggior riconoscimento dei loro diritti, è stata costretta ora a riconoscere l'eccessivo imbarbarimento di quello che con il tempo è diventato un politically correct «femminismo di Stato»: la tendenza a riconoscere la donna come «vittima di default» da parte delle istituzioni e la relativa condanna, senza processo né appello, della controparte di sesso maschile da parte della stampa e dell'opinione pubblica (tutti i media svedesi, come del resto svariate altre testate occidentali come il Guardian e il NYTimes, hanno fatto fronte comune nel dichiarare Assange come un «pericoloso stupratore rimasto in libertà e da assicurare al più presto alle patrie galere»), costituisce la conferma più lampante del fatto che ciò che inizialmente si configurava come uno «strumento di liberazione» sia degenerato in un mezzo «per far carriera, soprattutto in politica, nel servizio civile e nel sistema giudiziario». Il problema, amplificato ad arte da televisioni e giornali che sempre secondo la Bergman ormai si pongono solo l'obiettivo di «educare la popolazione piuttosto che tenere il potere sotto controllo», della violenza e della discriminazione contro le donne ormai è diventato l'arma più potente per penetrare la sensibilità delle persone comuni e carpirne i consensi. Questo punto debole della società occidentale, questa falla nelle capacità razionali e di critica dei popoli che hanno vissuto il femminismo finendo per esserne travolti, è proprio lo spiraglio che usano associazioni come Amnesty International per fomentare lo sdegno nei confronti di quei paesi che in qualche maniera osano rifiutare la dottrina e il modello svedese, e la rivolta dei popoli contro i relativi governi. Rivolta che potrebbe tuttavia avere diversi fini, non solo di natura politica e ideologica ma anche economica.

Vi avevamo già parlato di Julija Tymošenko: la ex premier ucraina è stata recentemente condannata per aver finanziato indebitamente attraverso le casse pubbliche la compagnia Gazprom, che controlla una buona fetta delle fonti di gas naturale all'interno del suolo russo. La vicenda riguardava la costruzione di gasdotti e centrali che consentissero lo sfruttamento a fini energetici di queste risorse: l'accusa contestava il fatto che l'entità della spesa non era giustificata, cioè che il finanziamento danneggiava lo stato ucraino a vantaggio della Gazprom. Società che, attraverso una complessa catena di partecipazioni (sempre secondo l'accusa), faceva affluire quote in alcuni fondi di proprietà della stessa Tymošenko; nel nostro ordinamento, il reato contestato prende il nome di peculato (lo stesso di cui sono attualmente indagati Lusi e Fiorito). Come dicevamo, la sentenza è stata pesantemente contestata da parte di svariate organizzazioni anche governative come la UE, che non hanno tardato a definire la sentenza come politica: secondo questi osservatori, il procedimento sarebbe stato orchestrato per tagliare fuori dalle elezioni il principale avversario dell'attuale presidente Viktor Janukovyč. Amnesty chiedeva il rilascio immediato e incondizionato della Tymošenko e l'archiviazione di tutte le imputazioni a suo carico, adducendo la medesima motivazione; anche il collettivo femminista ucraino Femen (lo stesso che tempo fa ha promosso una manifestazione contro il proscioglimento di Dominique Strauss-Kahn dall'accusa di stupro mossagli contro da una cameriera durante un suo soggiorno negli Stati Uniti e, secondo diversi opinionisti, manovrata con il fine di espellere l'ex presidente del FMI dalla corsa all'Eliseo) ha preso parte alle proteste per la liberazione della "lady di ferro". Il gruppo di contestatrici qualche mese fa è salito agli onori della cronaca per aver distrutto un monumento in memoria delle vittime dello stalinismo situato nel centro di Kiev: la leader del movimento, Inna Shevchenko, ha abbattuto una croce di Cristo morente usando una motosega


la sceneggiata è stata organizzata per dimostrare solidarietà nei confronti del gruppo feminist punk russo denominato Pussy Riot, del quale come ben saprete sono state recentemente condannate due esponenti a seguito di un concerto, giudicato blasfemo e di incitazione all'odio religioso, organizzato all'interno della più importante cattedrale di Mosca: cinque musicanti incappucciate si sono intrufolate nella chiesa di Cristo Salvatore per intonare un motivetto di discutibile valore artistico accompagnato da liriche banali e scontate che non vale proprio la pena riportare, a parte forse il passaggio in cui il capo della Chiesa Ortodossa viene definito puttana (questo è il video dello spettacolo con i sottotitoli in inglese). Anche per loro, Amnesty si è mobilitata chiedendo alle autorità russe il rilascio immediato e incondizionato delle tre componenti arrestate, e l'archiviazione di tutte le imputazioni a loro carico. La motivazione addotta, di nuovo supportata dalle medesime associazioni di cui si parlava prima, è che il procedimento penale fosse stato montato per ragioni di natura prettamente politica, ossia in qualche modo per "onorare" il presidente in carica Vladimir Putin che in effetti è stato coinvolto esplicitamente nella "preghiera punk" (il cui ritornello scandiva le parole Vergine Maria, manda via Putin) e nel contempo zittire uno scomodo avversario. Le Pussy Riot non godevano di alcuna visibilità né nel panorama culturale locale né tantomeno nella scena istituzionale russa, tant'è che erano praticamente sconosciute anche in ambito strettamente musicale; l'unico evento degno di nota e documentato antecedente al vilipendio della chiesa moscovita riguarda la leader del movimento, Nadezhda Tolokonnikova (una studentessa di filosofia 22enne), che come partecipante del collettivo Voina aveva condotto una manifestazione sempre contro Putin ma che non aveva prodotto alcuna conseguenza né amministrativa né penale. A seguito della vicenda che le ha fatte salire alla ribalta, la stampa occidentale ha costruito un imponente apparato di opinione che accusava il presidente del Cremlino di aver pilotato le procedure legali contro le tre donne imputate, secondo alcuni per motivi di convenienza politica mentre secondo altri (diciamo un po' più "realisticamente") o per ottenere "vendetta" nei confronti di chi lo aveva insultato o per "intimorire" il popolo e prevenire così nuove contestazioni contro il governo. Ragionevolmente per cercare di difendersi da questa campagna mediatica particolarmente aggressiva, Putin aveva pubblicamente lanciato un appello affinché le Pussy Riot venissero trattate con clemenza: questo si può spiegare assumendo una presa di consapevolezza del fatto che un'eventuale sentenza di colpevolezza nei confronti delle manifestanti e la relativa amplificazione strumentale da parte della stampa non avrebbero giovato alla sua reputazione e alla possibilità di essere nuovamente rieletto. La condanna di due delle tre contestatrici in passamontagna potrebbe stare a significare che probabilmente i tribunali russi non "obbediscono" al presidente come alcuni vorrebbero far credere; quel che è certo è che Putin, con le sue politiche protezioniste, è malvisto dalle multinazionali occidentali che tuttora chiedono una maggiore partecipazione in diverse società russe, tra cui guardacaso Gazprom. È noto del resto che alcune agenzie americane, ad esempio la Usaid, abbiano finanziato ONG russe come Golos che hanno poi accusato Putin di essere stato eletto solo grazie a brogli elettorali.

La vicenda delle Pussy Riot è stata pubblicizzata da Amnesty International attraverso un'intensa campagna mirata a denunciare la repressione del dissenso in Russia e sottolineare che il gesto delle artiste "si configurava come una legittima espressione del proprio pensiero": preso atto di ciò, è ben strano che la stessa organizzazione non si sia minimamente occupata dell'arresto di un 27enne greco accusato di aver diffuso in rete alcune immagini blasfeme di un monaco ortodosso, Elder Paisios, piuttosto noto nel paese ellenico. Si trattava per la precisione di alcuni fotomontaggi in cui il religioso veniva rappresentato in abbinamento a un piatto di lasagne, che in Grecia prendono per l'appunto il nome di Pastitsios. L'uomo si trova tuttora in carcere in attesa di giudizio, ma nessun comunicato in suo favore è mai stato emesso dalla ONG per i diritti umani. Ma del resto, le Pussy Riot sono state punite «perché donne», mentre questo qui probabilmente merita la pena perché è un maschio come lo stupratore Assange o tutti quelli che sono stati (erroneamente, of course) assolti in un processo per violenza sessuale. In effetti, nel caso di persone di sesso maschile la pubblicizzazione da parte di Amnesty delle petizioni è meno che scarsa, e generalmente verte su generiche pretese svogliatamente replicate attraverso copia-incolla quali il «salvaguardare la detenzione o il benessere fisico e psicologico delle persone sottoposte a custodia» (vedi esempio). Niente a che fare con la campagna promossa a favore della Sotoudeh, della Tymošenko, delle Pussy Riot, di Sarah Shourd, di Aung San Suu Kyi (e naturalmente non anche tutti gli altri detenuti politici birmani, colpevoli di essere portatori di membro e dunque non degni di considerazione) e di qualche altra, tra cui Sakineh Mohammadi Ashtiani.

Come certamente ricorderete, il caso Sakineh ha suscitato molto scalpore tempo fa: la notizia riguardava una donna iraniana accusata di adulterio e per questo condannata alla lapidazione. Solo dopo qualche tempo si è scoperto, attraverso canali che purtroppo non hanno avuto una altrettanto forte eco mediatica, che la storia è stata piazzata ad hoc da un anti-islamico francese, Bernard-Henry Lévy (membro di una frangia estremista che diverse volte si è contraddistinta per la diffusione di notizie false finalizzate a diffamare la cultura musulmana), e amplificata da Nicolas Sarkozy, dalla ex premier dame Carla Bruni e da Hillary Clinton sul fronte americano. In realtà, come hanno fatto sapere le autorità iraniane, la donna è stata condannata solo per aver preso parte all'assassino del marito, da lei drogato con lo scopo di semplificare l'opera all'esecutore materiale del crimine, l'uomo con il quale la Ashtiani avrebbe intrattenuto la relazione extraconiugale che ha poi portato all'ipotesi di adulterio. I giudici hanno emesso nei confronti dei due una sentenza di morte, tramite impiccagione, per il reato di omicidio volontario. Il giornalista Thierry Meyssan fa notare che in effetti provare l'accusa di adulterio è estremamente difficile: secondo la legge iraniana, per suffragare una simile imputazione sono necessari quattro testimoni che abbiano assistito, contemporaneamente, ad un qualche atto fedifrago. A conferma di ciò, parlano gli atti della Procura in cui non si fa alcun riferimento alla tresca. Non è certo se, qualora si riesca a dimostrare un avvenuto adulterio, sia prevista o meno la lapidazione: Meyssan sostiene che questo genere di pena era in vigore sotto lo scià ma che è poi stata abolita con la Rivoluzione Islamica. Altre fonti affermano che l'Iran si sta comunque apprestando a vietarla, impedendo così ai giudici (che godono di un ampio margine di discrezionalità nell'irrogazione delle punizioni) di applicarla in maniera arbitraria; sempre secondo queste fonti, già nel 2002 il capo del potere giudiziario aveva emesso un'ordinanza in cui invitava i magistrati a sospendere le esecuzioni per lapidazione. Non si trattava di una disposizione vincolante, e da allora alcune organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato una decina scarsa di persone lapidate. Quel che è certo tuttavia, è che Sakineh non sarà sottoposta al medesimo trattamento: tra le altre cose, l'ANSA riporta che l'impiccagione a cui era stata condannata è stata convertita dalla Corte Suprema in una sentenza a 10 anni di reclusione. Per la donna, Amnesty aveva richiesto il rilascio incondizionato e l'archiviazione di tutte le accuse a suo carico, sostenendo il suo status di «prigioniera di coscienza».

2 commenti:

  1. Inaudito. Non c'è bisogno di altri commenti.

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  2. oplah! finalmente un altro improbabile blog di pseudo-controinformazione scritto da qualche grafomane conservatore che non sopporta il progresso civile e cerca goffamente di arginarlo screditandolo con argomentazioni pretestuose. Maschilista sotto copertura che avversa il femminismo autentico chiamandolo "femminismo radicale" un po' come i clericali avversano la laicità autentica chiamandola "laicismo", e che chiama "pari opportunità" quello che invece è "mantenimento dello status-quo" a favore del genere maschile. Di Natale lei è patetico.

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